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Siberia, “riportati in vita” virus intrappolati nel permafrost per quasi 50.000 anni

In conseguenza del rilascio di gas serra, legati in particolare alle attività umane a partire dalla rivoluzione industriale, il nostro Pianeta vede la sua temperatura media innalzarsi in maniera sempre più rapida, in particolare in alcune aree. Nell’Artico le temperature medie risultano aumentare due volte più rapidamente rispetto alle regioni temperate, con conseguenze ormai ben visibili, quali lo scioglimento del ghiaccio marino e quello del permafrost. Quest’ultimo fenomeno allarma il mondo scientifico in quanto tale strato di terreno perennemente (un tempo) ghiacciato, ha svolto per migliaia, anche milioni di anni, la funzione di serbatoio, diciamo anche di congelatore, di microrganismi, quali batteri, Archaea, funghi, protozoi e virus. Molti di essi, rimasti quiescenti nel ghiaccio, possono andare incontro a una riattivazione metabolica non appena si superino le temperature di congelamento e torni dunque a circolare acqua allo stato liquido. Capita talvolta che nell’Artico si manifestino epidemie di antrace, probabilmente legate a una riattivazione del bacillo responsabile della malattia in estati particolarmente calde.

Man mano che a sciogliersi sono gli strati di permafrost più profondi cresce il timore che ad essere liberati siano microrganismi sconosciuti e potenzialmente pericolosi per gli organismi viventi, uomo compreso. Se sul fronte dei batteri conservati nel permafrost antico abbondano articoli scientifici, poche sono attualmente le ricerche focalizzate sui virus. Un recente studio, condotto da un team internazionale di scienziati, coordinato dal microbiologo del Centro Nazionale di Ricerca scientifica francese (CNRS), Jean-Marie Alempic, ha cercato di colmare tale gap, andando a “resuscitare” e analizzare un pool di “virus zombie”, come vengono definiti dai ricercatori stessi nel paper che raccoglie i risultati, “An update on eukaryotic viruses revived from ancient permafrost”, pubblicato sul portale Biorvix, estratti dal permafrost siberiano. Virus risalenti addirittura a circa 50.000 anni fa.

Bisogna avere paura dei virus antichi?

Le ricerche finora condotte sui batteri conservati nel permafrost hanno evidenziato che tra di essi vi siano molti “parenti” di comuni patogeni contemporanei (Acinetobacter, Bacillus anthracis, Brucella, Campylobacter, Clostridia, Mycoplasma, vari Enterobacteria, Mycobacteria, Streptococci, Staphylococci, Rickettsia). Ma, come evidenziato dai ricercatori, “possiamo ragionevolmente sperare che un’epidemia causata da un batterio patogeno preistorico rianimato possa essere rapidamente controllata dai moderni antibiotici a nostra disposizione, poiché colpiscono le strutture cellulari (ad esempio i ribosomi) e le vie metaboliche (trascrizione, traduzione o sintesi della parete cellulare) conservate durante l’evoluzione di tutti i phyla batterici, anche se i batteri portatori di geni di resistenza agli antibiotici sembrano essere sorprendentemente prevalenti nel permafrost”. Dunque c’è da stare attenti, ma senza eccessivo panico.

Diversa risulta essere la situazione sul fronte dei virus. “La situazione sarebbe molto più disastrosa nel caso di malattie vegetali, animali o umane causate dalla rinascita di un antico virus sconosciuto – evidenzia il team – . Come purtroppo ben documentato dalle recenti (e in corso) pandemie, ogni nuovo virus, anche legato a famiglie note, richiede quasi sempre lo sviluppo di risposte mediche altamente specifiche, come nuovi antivirali o vaccini.”

Contro i virus non è possibile disporre di antibiotici ad ampio spettro, dunque risulta legittimo riflettere sulle conseguenze potenziali di un rilascio di virus, magari sconosciuti, dal permafrost.

Studi da condurre con attenzione

La domanda che sorge spontanea è la seguente: se è lecito allarmarsi di fronte a uno scenario di “ritorno in vita” (anche se per i virus parlare di “vita” non è biologicamente corretto, trattandosi di parassiti endocellulari obbligati) di antichi virus, perché la scienza non si concentra sul loro studio? La risposta fornita dagli scienziati è che per motivi di sicurezza e ragioni normative, i tentativi di “resuscitare” i virus siano fortemente limitati. La percezione, data dallo scarno numero di articoli sul tema, è che nel permafrost siano custoditi pochi virus potenzialmente infettanti, ma il nuovo studio sembra confutare tale ipotesi.

Per limitare i rischi legati al processo di “resurrezione” dei virus, il team internazionale ha puntato sull’utilizzo come organismo target dell’infezione virale (ospite) di amebe del genere Acanthamoeba, molto diffuse nell’ambiente, che raramente possono invadere i tessuti umani. A partire da colture cellulari di amebe sono stati isolati in totale 9 virus da campioni di permafrost siberiano, dei quali si è proceduto a effettuare un sequenziamento genomico che ha portato a identificarli come appartenenti a 5 cladi diversi, non ancora riportati in vita in studi precedenti. Precedenti isolamenti di virus in grado di infettare cellule eucariote, due ceppi risalenti a 30.000 anni fa, si devono al medesimo team di ricerca.

“La facilità con cui questi nuovi virus sono stati isolati suggerisce che particelle infettive di virus specifici di molti altri ospiti eucarioti non testati (protozoi o animali) rimangono probabilmente abbondanti nell’antico permafrost”, il commento dei ricercatori.

Virus infettivi dopo quasi 50.000 anni

I 9 virus isolati possono essere considerati dei giganti, molti dei quali presentano dimensioni tali da poter essere visionati al microscopio ottico. Quattro dei virus isolati da antichi strati di permafrost sono risultati appartenere alla famiglia dei Pandoraviridae. I Pandoravirus sono dei virus il cui genoma è tra i più grandi rilevati nel mondo virale. Si presentano come particelle ovoidali di 1 μm di lunghezza e 0,5 μm di diametro. Tra questi è da segnalare un virus da record per “anzianità”, isolato da uno strato di permafrost estratto a 16 metri di profondità dal fondale di un lago della Yacutia, risalente a 48.500 anni fa, ribattezzato Pandoravirus yedoma.

Tre dei virus isolati sono risultati appartenere al clade dei “cedratviruses” all’interno della famiglia dei Pithoviridae. Altri giganti in un mondo micro, anche questi ovoidali e lunghi fino a 2μm. Tra questi un pithovirus isolato da uno strato di permafrost ricco in lana di mammut risalente a 27.000 anni fa. Un giovincello a confronto con il Pandoravirus yedoma.

E ancora un virus appartenente alla famiglia dei Mimiviridae (Megavirus mammoth), icosaedrici con diametro di circa 0.5 μm, e un pacmanvirus, virus icosaedrici con diametro di 220 nm (Pacmanvirus lupus in quanto isolato dai resti intestinali congelati di un lupo siberiano conservato in uno strato di permafrost più antico di 27.000 anni).

Quanti virus custodisce il permafrost?

“Questo studio – commentano i ricercatori – conferma la capacità dei grandi virus a DNA che infettano l’Acanthamoeba di rimanere infettivi dopo oltre 48.500 anni trascorsi nel permafrost profondo”.

L’utilizzo delle amebe può risultare un fattore limitante nello studio dei virus conservati nel permafrost, in quanto isolare esclusivamente i virus in grado di indurre la lisi di tale cellule, non esclude che nei campioni di partenza vi siano virus non litici o virus non infettanti le amebe ma altri organismi, che sfuggono alle analisi. Inoltre la ricerca si è concentrata su virus giganti, dunque virus di dimensioni più piccole potrebbero non essere stati rilevati.

“È quindi probabile – conclude il team – che l’antico permafrost (alla fine molto più vecchio di 50.000 anni, il nostro limite dettato esclusivamente dall’intervallo di validità della datazione al radiocarbonio) rilascerà questi virus sconosciuti dopo lo scongelamento. Per quanto tempo questi virus potrebbero rimanere infettivi una volta esposti a condizioni esterne (luce UV, ossigeno, calore) e quanto è probabile che incontrino e infettino un ospite adatto nell’intervallo, è ancora impossibile stimarlo. Ma il rischio è destinato ad aumentare nel contesto del riscaldamento globale quando lo scongelamento del permafrost continuerà ad accelerare e sempre più persone raggiungeranno l’Artico.”

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